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Palermo 30/31 marzo 2012
Conferenza nazionale PD per l'Infanzia e l'Adolescenza
F O R U M 

Comunità per minori: elementi di una archittetura complessa
di Giovanni Fulvi
Assistente Sociale

Le comunità per minori:
elementi di un’architettura complessa




Sommario
1. Elementi costitutivi 2
1.1. Le comunità per minori 2
1.2. La struttura comunità 2
1.3. Chi arriva in comunità 3
1.4. Tempi di permanenza 6
1.5. Comunità/Affido 6
2. Elementi di specificità 7
2.1. Comunità specialistiche 7
2.2. Over 18/Under 21 8
2.3. Comunità Madre bambino / Comunità Genitore bambino 8
2.4. Comunità di Pronta Accoglienza 10
3. Elementi di vita quotidiana 10
3.1. I livelli dell’educare 11
3.2. Le diverse velocità di intervento 12
3.3. Le comunità e la famiglia di origine 12
4. Elementi di professionalità 13
4.1. Formazione 13
4.2. Supervisione 14
5. Elementi strutturali 14
5.1. I requisiti strutturali 14
5.2. Dimensione familiare e normative (Haccp) 15
6. Elementi di progettazione 15
6.1. Progetto Quadro 15
6.2. Progetto Generale della Comunità 16
6.3. Progetto Educativo Individualizzato (P.E.I.) 16
6.4. L’equipe educativa 17
6.5. Il gruppo dei pari 17
6.6. Lavoro di rete e 328 17
7. Elementi economici 18
7.1. Costi, rette, gare d’appalto 18
7.2. Fondo di solidarietà 18
7.3. Retta partecipata da enti diversi in situazioni complesse 19
7.4. I ritardi dei pagamenti delle rette da parte dei Servizi Invianti 19
8. Elementi di discussione 19
8.1. Autorizzazione al funzionamento e accreditamento 19
8.2. Giusto processo 19
8.3. Difensore Civico o Garante per l’Infanzia 20
8.4. Linee Guida Nazionali 20
8.5. Livelli Essenziali di Assistenza Sociale 20


Elementi costitutivi

1.1. Le comunità per minori
Le comunità per minori in Italia (chiamate anche comunità alloggio, gruppi appartamento, gruppi famiglia, case famiglia) rappresentano realtà molto diverse di esperienze, di organizzazione, di risposte date ai minori, che si sviluppano per rispondere in chiave innovativa al tradizionale ricovero in istituto nell’intenzione di offrire a minori ospitati un clima familiare, degli spazi fisici e mentali di autonomia e di personalizzazione, una qualità relazionale quantitativamente maggiore, una rielaborazione del vissuto precedente per arrivare alla costruzione di una personalità il più possibile armonica e compiuta.
Nascono sull’onda del cambiamento culturale che si manifesta tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, che voleva segnare la fine della tradizione dell’assistenzialismo e avvia la ricerca di nuove modalità di intervento in ambito sociale, in un clima spontaneista anti-istituzionale, con forti ambiguità non risolte con il modello familiare, definendosi in genere più per quello che non volevano essere piuttosto che per quello che volevano essere; le conseguenze operative sono state quindi un iniziale e prolungato rifiuto di modelli organizzativi, di gerarchie, l’équipe degli educatori era il “motore immobile”, rigorosamente orizzontale e paritaria, solo in epoche più recenti si è passati ad una disponibilità a riconoscere la validità di funzioni di coordinamento, referenze su ambiti o su persone, strutturazione di momenti formali con i minori e via dicendo; il clima iniziale delle comunità era improntato da un alto livello motivazionale degli educatori, che in molti casi erano soggetti con grandi capacità di accoglienza e disponibilità e questo ha comportato che le comunità si siano offerte (…o siano state utilitaristicamente considerate…) come contenitori polivalenti multi-uso.
Ciò è stato oltremodo facile in un clima in cui ogni problema comportamentale nell’età evolutiva era spesso semplicisticamente attribuito alla crescita in un “ambiente cattivo”, quindi la comunità che era di per sé un “ambiente buono” diventava automaticamente la soluzione buona per tutti i casi. Tutto ciò era anche amplificato dalla giustificata spinta verso una integrazione in contesti di normalità dei soggetti svantaggiati.
Le comunità nel corso degli anni sono cresciute, si sono maggiormente strutturate, i miti egualitari e collettivistici si sono ridimensionati, gli educatori si sono professionalizzati, ed hanno maggiormente definito tipologie ed ambito di intervento, modalità di ammissione e dimissione dalla comunità, acquisendo contrattualità con il servizio e/o i servizi invianti. Il cambiamento delle condizioni di lavoro ha permesso di gestire in modo migliore il burn-out ed il conseguente turn-over degli educatori.
1.2. La struttura comunità
Le comunità sono dei micro-organismi complessi, per la loro stessa natura perché c’è un’articolazione di livelli di interelazione e di interazioni che si creano con e fra diversi soggetti (equipe educative, supervisione, rapporti con i servizi, con le famiglie d’origine e/o affidate e/o adottive, con il Tribunale per i minorenni, con il Giudice Tutelare, con la Procura della Repubblica e, all’interno, soprattutto minore/gruppo minori, educatore/educatori, minore-gruppo minori/educatore-i) ed anche perché sono gestiti da soggetti diversi, con diverse modalità organizzative, con diverse tipologie di risposte.
Diverse sono le fasce d’età di cui le comunità si occupano, perché alcune offrono accoglienza a fasce definite di età, altre sono articolate in modo diverso, con un’accoglienza più ampia. Questo dipende da scelte individuali della comunità e/o del territorio, dalla loro storia, dal numero di comunità o di minori presenti nel territorio. Le comunità sono così integrate con il territorio che si strutturano in relazione ai bisogni locali, diventando così uno specchio del territorio in cui sono ubicate. Se la comunità è ubicata in un territorio a bassa densità di popolazione e/o di problematicità è più facile rilevare la presenza di una sola comunità con una un’accoglienza più ampia e variegata di quelle presenti in un’area urbana ad alta densità di popolazione dove l’offerta è più numerosa e si può differenziare per tipologie o per fasce d’intervento.
Nell’accoglienza sono presenti anche differenze di genere, infatti possiamo trovare strutture che accolgono solo maschi, solo femmine, entrambi i generi, entrambi i generi con differenze di limite massimo di età in relazione al genere.
Anche rispetto alla risposta per tipologia di bisogno troviamo accoglienze differenziate e articolate. C’è la comunità che risponde un po’ a tutte le istanze e quelle che si specializzano in alcuni tipi di bisogno o di problematiche espresse (minori con problemi psicopatologici, minori stranieri, minori abusati, minori tossicofilici o dipendenti da sostanze, minori soggetti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, minori con problemi socio-relazionali).
Un elemento ulteriore di differenziazione delle comunità deriva anche dalle diversità di tipologia dell’Ente Gestore. La Comunità può essere gestita da un organismo autonomo di diversa natura giudica o essere inserita in una struttura più ampia, come una cooperativa o una organizzazione che gestisce altre comunità a convenzione e/o a retta e/o altri servizi, un ente pubblico che può avere una gestione diretta della struttura residenziale o ne detiene la titolarità affidando la gestione tramite un rapporto convenzionale o che paga la retta ad una struttura privata, un ente religioso o un’associazione che ha solo una struttura, più strutture nello stesso territorio, strutture a diffusione nazionale, una famiglia che accoglie minori supportata nel compito anche dalla presenza di altre figure educative. Queste differenziazioni, oltre ad ampliare l’offerta e a differenziarla per rispondere al meglio alle esigenze dei minori, rappresentano un indubbio elemento di complessità.
Nel corso del tempo ci sono stati cambiamenti evidenti nella quantità di strutture gestite da alcune tipologie di enti gestori: molte comunità gestite direttamente dall’ente pubblico hanno chiuso o sono passate ad una gestione diversa con il mantenimento oppure meno della titolarità, le comunità gestite da istituti o congregazioni religiosi hanno diminuito numericamente le strutture gestite, alcune realtà che gestivano una sola comunità o solo comunità hanno chiuso oppure sono confluite in strutture più grandi, con servizi differenziati, sono aumentate le strutture più complesse, con gestione di molte tipologie di servizi e di utenza.
A questi cambiamenti non sono state estranee una serie di normative cogenti che sono diventate operative o sono state emanate negli ultimi anni ed altre volontarie, come la certificazione di qualità (peraltro a volte necessaria per concorrere a bandi pubblici), che hanno appesantito molto la gestione organizzativa. Il riferimento, in estrema sintesi, può essere facilmente individuato nelle normative relative all’igiene dei prodotti alimentari, alla sicurezza nei luoghi di lavoro, alla privacy, all’adeguamento a standard regionali sia strutturali legato anche all’accessibilità e visitabilità delle strutture, che del personale impiegato, sia in relazione ali livelli contrattuali che ai titoli professionali. Molto spesso strutture piccole, monoservizio o con strutture gestionali semplici hanno fatto fatica ad adeguarsi sia in relazione all’acquisizione di competenze che all’aumento dei costi derivato dall’applicazione delle normative di cui sopra.
1.3. Chi arriva in comunità
Per quanto riguarda l’accoglienza dei minori, c’è stata un’evoluzione costante della domanda di inserimento a partire dalla nascita delle comunità: spesso le prime comunità hanno accolto minori che erano collocati in istituto o le cui condizioni di povertà sia materiale che immateriale erano talmente evidenti da essere immediatamente iscrivibili in una fascia di marginalità e di multi problematicità. Gradualmente la domanda si è modificata, in parte perché sono arrivati in comunità minori non più riconducibili ad un’unica categoria sociale, probabile segno di un malessere e di una difficoltà ad essere “buoni” genitori che si era esteso trasversalmente alle diverse classi sociali, in parte perché le problematiche di cui i minori erano vittime andavano a specificarsi e richiedere attenzioni ed interventi educativi diversificati. Più le comunità si strutturano e più si sviluppa il concetto che esiste un abbinamento utile tra una comunità ed un certo tipo di situazioni. Questo spesso non rimane vero per sempre, ma ad un certo punto della loro storia quella comunità con quegli operatori rappresenta una risposta specifica per un certo tipo di bisogno. Le comunità quindi, nella loro articolazione, si sono specializzate, hanno trovato le risposte più adeguate ad una certa problematica. Questo ha aperto la strada al concetto di “comunità specialistica” e, soprattutto nelle situazioni di disturbi pervasivi dello sviluppo o del comportamento, o in relazione alle dipendenze, alle comunità terapeutiche. In caso di minori con questo tipo di problematiche, le domande poste sono sempre state le stesse: un minore che presenta questi problemi, è più opportuno che stia con persone con un problema simile al suo o con altre? In estrema sintesi, è il progetto di comunità che si specializza o solo il progetto educativo individualizzato? L’ulteriore riflessione che ci siamo posti dopo questa è relativa al fatto se sia più o meno giusto che i minori ospiti, allontanati da situazioni di conflitto o di violenza nelle famiglie di origine, poi ritrovassero alcuni di questi comportamenti agiti nelle comunità da altri ospiti? Fino a quando l’inserimento è possibile?
Un’altra importante evoluzione dell’accoglienza in comunità si è verificata con l’arrivo dei minori stranieri non accompagnati. Questo ha significato per le comunità rimettersi in gioco completamente, per garantire un’accoglienza rispettosa delle diversità e che portasse i minori provenienti da altri paesi ad un livello accettabile di integrazione. Le comunità hanno lottato perché alcuni diritti dei minori e, soprattutto il passaggio alla maggiore età, non rendesse concreto lo spettro della clandestinità che avrebbe reso vano il percorso svolto con il minore fino a quel punto.
Per quanto riguarda i minori italiani si evidenziano a volte interventi contradditori, scarso rispetto dei tempi, eccessivo garantismo, tentativi di intervento territoriale e di sostegno alla genitorialità troppo protratti nel tempo e poco consistenti nel contenuto, costruzioni di “reti“ di intervento complicate ed ingestibili ove spesso non si capisce chi sia il “pescatore”, cioè chi dovrebbe governare la rete. Questo comporta a volte il trascinare l’inserimento in comunità quando il minore è in una protratta fase adolescenziale, quando i rischi possono essersi già strutturati in difficoltà, quando anche per la comunità diventa molto più difficile elaborare un progetto che porti al superamento delle problematiche e/o all’autonomia. L’allontanamento è sempre un intervento difficile, per il minore, per la famiglia ed anche per gli operatori, da cui spesso viene vissuto con disagio a causa della nostra cultura e del nostro modo di intendere i legami familiari. Ciò a volte impedisce la separazione prima che i rapporti familiari siano troppo compromessi e si possa considerare l’allontanamento come risorsa da cui ripartire. Per quanto difficile le comunità devono lavorare al fine che l’allontanamento non si prefiguri come uno strappo assoluto, definito, irrimediabile. Il compito delle comunità non deve essere quello di mettere una “crocetta” sulla famiglia di origine che non funziona, sperando che possa essere dimenticata, permettendo al minore di ripartire da zero. La rimozione non è mai una soluzione auspicabile. In questo senso riteniamo opportuno “definire” come le comunità lavorano rispetto alla famiglia di origine tenendo conto delle differenze sostanziali che si presentano nell’accogliere minori fino ai 12-13 anni oppure adolescenti. Differente sarà invece il lavoro con quei minori i cui genitori sono decaduti dalla potestà genitoriale per i quali non sarà possibile, ovviamente, attivare un percorso che includa la famiglia di origine. In questi casi le comunità svolgono un lavoro che, a seconda del Progetto elaborato dal servizio inviante, prenderà direttrici diverse: percorso che porta all’autonomia o semi-autonomia, affido, adozione.
Le comunità sempre più spesso rispondono ad adozioni internazionali, nazionali ed affidi non andati a buon fine. Come sensore attento ai bisogni dei minori possiamo dire che questa percentuale aumenta costantemente. Il lavoro con questi minori è, nella maggior parte dei casi, molto complesso poiché i minori devono convivere con più rifiuti degli adulti che avrebbero dovuto prendersi cura di loro, per cui diventa normale chiudersi nella loro rabbia o nel loro dolore in un gesto protettivo.
Qualche parola in più sulla condizione dei minori stranieri non accompagnati. Non vorremmo che in un clima di tagli e restrizioni dei bilanci si modifichi l’idea che un minore straniero è prima di tutto un minore per il quale vanno attivati gli stessi percorsi dei minori italiani, per vederla trasformata in quella di “straniero” minore, per il quale possono prevalere interventi differenziati.
Il problema delle dipendenze forse è stato nel passato affrontato dalle comunità in misura meno rilevante rispetto ad altre tematiche, ma andrebbe affrontato con la preparazione di educatori che devono possedere le conoscenze e le competenze necessarie per entrare in relazione con i minori rispetto al tema specifico, visto che in Italia i servizi specialistici per minori sono ancora pochi ed i minori si ritrovano a seguire percorsi individuati per gli adulti, che essendo costruiti per soggetti di età diversa, non tengono conto delle specificità evolutive e di costruzione della personalità-identità di un oggetto in crescita.
D’altronde, l’aumento della complessità nel mondo delle dipendenze e conseguentemente della difficoltà a dare delle risposte adeguate è evidente. Vecchie e nuove sostanze convivono, dilaga il problema dell’alcool, che si può combattere solo attraverso azioni organiche e coerenti di prevenzione e educazione. Secondo i dati presentati alla prima conferenza nazionale sull’alcol i giovani mettono questa ed altre sostanze al centro delle loro serate, i dati del fenomeno legato all'abuso di alcol in Italia sono preoccupanti, complessivamente sono oltre 740mila i minori tra 11 e 17 anni classificabili come consumatori a rischio: 470 mila ragazzi e 270 mila ragazze.
Nel corso degli anni, le dipendenze sono state oggetto di innumerevoli studi e ricerche, realizzati con approcci diversi. Nella ricerca scientifica ormai sono inclusi tra gli elementi valutativi, non solo le caratteristiche dell’individuo, delle sostanze ed il contesto, ma anche le interazioni, le pressioni e i modelli sociali. Alcune dipendenze, oggi, sono definite “sociali” in quanto l’oggetto della dipendenza assume una rilevanza minore negli aspetti clinici e negli effetti indotti nell’organismo, mentre aumenta la rilevanza del significato individuale e sociale del consumo e del giudizio che gli viene attribuito. Questa dimensione di rischio sociale costituisce il contesto in cui si determina la scelta del comportamento da intraprendere: dall’alcol al gioco d’azzardo, allo shopping compulsivo, alla dipendenza da lavoro o da cellulare, all’abuso da palestra.
Le situazioni dei minori che vengono ospitati nelle comunità sono sempre più complesse ed articolate, poiché presentano una serie di problematicità che poi, nel corso dell'intervento, possono prevalere l’una sull’altra, quando si comincia a risolvere un problema può presentarsi o emergere quello successivo; rispetto a questo ci chiediamo come anche i gruppi di lavoro sulla situazione possano e riescano ad essere duttili o flessibili, lasciando la “guida del gruppo” alla professionalità in quel momento più adatta alla soluzione del problema emergente. Nel panorama dell’accoglienza sono presenti due linee di pensiero: quella di un’accoglienza più ampia e meno definita, e quello di un’accoglienza specializzata per tipologia di utenza. Rispetto a questa soluzione, il problema rimane per tutti quei minori che non rientrano nelle tipologie individuabili e definibili come area d’intervento o che, a diverso titolo, potrebbero far parte (proprio per la complessità della loro storia) di più o addirittura di tutte le tipologie, rischiano di rimanere fuori della rete o che l’indirizzo verso una tipologia o l’altra di struttura o di progetto sia determinata non dall’interesse superiore del minore, ma da fattori economici o di prevalenza o dominanza di un servizio su un altro.
Non dobbiamo dimenticarci di affrontare il problema dei bambini “ostaggio terapeutico” di genitori malati mentali o dipendenti, sui quali spesso si basa il programma di sostegno dell’adulto/genitore.
Questi esempi non sono sicuramente esaustivi di tutte le gamme possibili di situazioni che possono verificarsi, come educatori sappiamo bene che esistono dei frangenti in cui la famiglia non è in grado, anche se supportata, di adempiere al ruolo genitoriale e che le situazioni di sfruttamento, violenza, maltrattamento, abuso, incuria, abbandono, non sono un’invenzione dei servizi sociali o delle comunità, ma (purtroppo) si verificano ancora oggi.
1.4. Tempi di permanenza
Se queste sono le situazioni dei minori che arrivano in comunità allora alcuni dati rilevati anche dalla ricerca nazionale del ’98 (promossa, su incarico del Dipartimento degli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Centro Nazionale di Documentazione e Analisi sull’Infanzia e l’Adolescenza dal titolo «I bambini e gli adolescenti “fuori della famiglia”. Indagine sulle strutture educativo assistenziali in Italia» e che possono essere considerati negativi, come i tempi lunghi di permanenza o i rientri a casa poco frequenti o addirittura assenti, dobbiamo contestualizzarli a questa particolare utenza, con famiglie molto disgregate o quasi inesistenti, ragazzi forse troppo “difficili” e grandi per essere affidati, troppo poco accettabili con le loro difficoltà, la loro rabbia, il loro risentimento, il loro dolore.
Più i minori arrivano “tardi” in comunità rispetto all’insorgere del problema, più sono profonde le lacerazioni, più diventa difficile ridurre i tempi di permanenza. Un’altra variabile fondamentale e la famiglia e il contesto di appartenenza: se sono accoglienti, si mettono in discussione, seguono i programmi, vengono adeguatamente seguiti dai servizi, con quanta frequenza vengono seguiti. La continuità del servizio inviante e la continuità/coerenza del progetto quadro sono elementi indispensabili in relazione ai tempi di permanenza, ma fondamentali sono le risorse dei minori che sono in grado di attivare.
Il percorso evolutivo di un minore è la risultante di una serie di forze che possono non agire tutte coerentemente e/o contemporaneamente nella direzione di una “emancipazione” da una situazione di difficoltà, la lettura dei risultati del percorso in comunità non può essere disgiunta da una valutazione di tutto il sistema che ha in carico il minore o che con lui interagisce. La coerenza dell’intervento complessivo può portare a risultati di maggiore efficacia e l’individuazione delle aree di criticità in un determinato percorso facilitano la formulazione di azioni correttive. Allora se parliamo di una regia della presa in carico, della co-responsabilizzazione nell’intervento dobbiamo individuare strumenti allargati di valutazione e di lettura che tengono conto del percorso della famiglia, dei servizi, della comunità, degli altri interventi (scuola, tempo libero, ecc.).
1.5. Comunità/Affido
Le comunità piuttosto che essere un’alternativa all’affido sono un’offerta in più per l’Infanzia e l’Adolescenza in difficoltà. L’evoluzione culturale che ha portato alla definizione del Progetto educativo Individualizzato come strumento più adeguato a rispondere in chiave innovativa . La costruzione di un progetto individuale offre la possibilità di intervenire per quel minore, che ha quei problemi, che vive in quel contesto socio-familiare, in quel territorio, che ha quelle risorse o che può attivarne altre, sia proprie che del contesto di riferimento, di appartenenza. Le risposte dei servizi per essere adeguate al bisogno ed avere efficacia dovranno essere plurali, differenziate, articolate, in modo da offrire più possibilità, più livelli di intervento, livelli differenziati di protezione, più opportunità per i fruitori. Per questo sia l’affido che le comunità possono andare entrambe ad arricchire l’offerta plurale dei servizi per l’infanzia e all’adolescenza, quindi porsi in modo complementare piuttosto che alternativo, rispondendo a situazioni diverse di persone diverse, ma anche della stessa situazione in fasi successive del progetto individuale.
La comunità può costituire un momento di “decantazione” di una situazione difficile e complessa che facilita il successivo passaggio in una famiglia affidataria e/o adottiva; in tutte le situazioni in cui non è ancora definito un progetto quadro e per l’elaborazione del quale, in mancanza di elementi certi, c’è la fase dell’osservazione del minore e della famiglia in ambiente neutro; può favorire l’allontanamento di quei minori che considerano il passaggio in un’altra famiglia come un tradimento dei genitori biologici o adottivi e per questo la rifiutano; può essere una risposta per i minori stranieri non accompagnati, che spesso, soprattutto se adolescenti, fanno fatica ad adeguarsi alle regole e sono in genere, per le vicissitudini sofferte, più “adulti” dei loro coetanei; per le situazioni di affidamento familiare già sperimentate e fallite per qualsiasi motivo; per i ragazzi vicini alla maggiore età o in adolescenza avanzata; per quelle situazioni in cui, in quel particolare momento, non c’è una famiglia disponibile con le caratteristiche necessarie per un utile abbinamento; per le situazione ad alta complessità; per quei minori soggetti a provvedimenti restrittivi della libertà personale o in custodia cautelare.
2. Elementi di specificità

2.1. Comunità specialistiche
Un problema ancora aperto è quello se e come le comunità per minori devono specializzarsi per dare risposte più mirate alle singole esigenze, facciamo riferimento alle comunità che si stanno sviluppando con un’accoglienza definita per tipo di bisogno a cui dare risposta: le comunità terapeutiche per il disagio psichico, quelle per minori tossicofilici-tossicodipendenti, quelle per minori vittime di abuso, quelle per minori stranieri, quelle per minori soggetti a provvedimenti penali. È difficile dare un indirizzo preciso nella direzione di specializzazione degli interventi residenziali a discapito dei tentativi di integrazione, ma riteniamo che sia fondamentale riflettere sulla loro funzione, sui loro limiti e sulle loro potenzialità: l’inserimento di soggetti con particolari problemi in una “normale” comunità per minori è possibile ed auspicabile sempre che esistano le condizioni per poter garantire supporti proporzionati alle difficoltà che verosimilmente si presenteranno onde permettere normali livelli di investimento sugli altri minori ospiti da parte dell’équipe degli educatori.
L’esistenza di comunità specialistiche può impigrire gli operatori di comunità educative e spingerli a disinvestire dai casi che presentano difficoltà fuori dalla media, rinunciando così anzitempo a quella prerogativa di creatività ed inventività che li dovrebbe caratterizzare: la gestione difficile prima che diventi impossibile si trasforma in espulsività verso comunità altamente specializzate. Il problema inoltre rimane insoluto per tutti quei minori che non rientrano nelle tipologie individuate o che, a diverso titolo, potrebbero far parte (proprio per la complessità della loro storia) di più o addirittura di tutte le tipologie, concretizzando il rischio che qualcuno, o molti, restino fuori della rete o che l’indirizzo verso una tipologia o l’altra sia determinata non dall’interesse superiore del minore, ma da fattori economici o di prevalenza o predominanza (politica, culturale, economica) di un servizio su un altro.
Si evidenzia inoltre come il rischio di eccessive certezze diagnostiche da parte dei sanitari sia sempre all’angolo, pertanto si ritiene che una valutazione congiunta, nello spirito dell’integrazione socio sanitaria, che al di là della classificazione nosologica evidenzi in positivo le potenzialità operative dei minori, le loro capacità relazionali, i margini di autonomia. I percorsi in strutture specialistiche vanno inoltre monitorati con attenzione dagli operatori del sociale anche per evitare passaggi da una struttura all’altra troppo meccanicistici.
L’utilizzo di psicofarmaci apre inoltre scenari preoccupanti che vanno regolamentati con chiarezza e controllati.
Sarebbe pertanto opportuno che a livello nazionale fossero definiti standard socio-sanitari per le comunità specialistiche per minori con linee guida ed indicazioni operative specifiche.
2.2. Over 18/Under 21
All’interno delle comunità si rileva sempre più spesso la necessità di accompagnare i ragazzi, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, in un percorso di progressiva autonomia, lo sbarramento dei diciotto anni, infatti, non sempre presuppone il raggiungimento della maturità e il compimento di un percorso. Le difficoltà lavorative, sociali, personali e familiari non svaniscono con il raggiungimento della maggiore età e molti ragazzi, per quanto maggiorenni, necessitano, anche dopo il diciottesimo anno, di un supporto per la realizzazione di percorsi di vita autonoma. A volte vengono prolungati percorsi di accoglienza nelle comunità anche se le risposte possibili variano da regione a regione e a volte all’interno delle stesse. Con la maggiore età infatti alcuni enti non provvedono più al pagamento della retta o dispongono l’allontanamento del minore dalla struttura per sopraggiunti limiti di età. Questo porta a volte alla soluzione più “semplice” che è quella del ritorno a casa anche se le condizioni permangono problematiche.
D’altro canto è opportuno prevenire, attraverso un lavoro educativo che porta alla consapevolezza di sé e all’autonomia, che si creino forme di dipendenza dalle comunità, soprattutto in quei minori che presentano una fragilità strutturale dovuta sia a situazioni di difficoltà sia sul piano psico-fisico che su quello emotivo-relazionale. In questi casi diventa indispensabile valutare attentamente se le prosecuzioni oltre il diciottesimo anno solo utili per condurre a compimento un percorso di autonomia oppure sono solo un rimandare il problema della collocazione del neo-adulto fragile. C’è da tenere in considerazione anche il fatto che, se si intraprendono percorsi di inserimento diversi dalla comunità subito dopo la maggiore età, c’è la possibilità di verificare il percorso ed eventualmente fare gli aggiustamenti necessari fino al compimento del ventunesimo anno.
I minori immigrati, soprattutto se soli sul territorio nazionale, sono generalmente più preparati ad affrontare la vita anche in virtù delle esperienze precedenti l’arrivo in comunità, ma sono più fragili giuridicamente, linguisticamente, culturalmente. Il raggiungimento del diciottesimo anno diventa sicuramente un problema in più, soprattutto nel momento in cui il soggiorno per minore età non viene trasformato e quindi si ritrovano allontanati dopo un percorso di protezione e la costruzione di un progetto di vita.
2.3. Comunità Madre bambino / Comunità Genitore bambino
Le comunità Genitori\Madri-bambino sono in continuo aumento e rappresentano una tipologia di struttura specifica ed anomala rispetto alle altre tipologie di comunità per minori.
Specifica in quanto il progetto educativo e di accoglienza riguarda non esclusivamente il figlio ma anche il genitore: è un intervento che si attiva precocemente e consente attraverso l’osservazione puntuale della relazione madre-bambino, di raccogliere informazioni fondamentali per prendere decisioni ponderate ma tempestive che tutelino la crescita dei singoli minori, attraverso percorsi di accoglienza sostegno e valorizzazione della famiglia tra protezione ed autonomia e di proteggere e sostenere in massimo grado la relazione tra madre e figlio.
In questo si evidenzia l’anomalia rispetto alle altre tipologie di comunità per minori: si tenta scongiurare per quanto possibile soluzioni che comportino la separazione del nucleo, e contemporaneamente, ove possibile, attivare in luogo protetto un percorso di recupero dell'autonomia individuale e familiare.
L'osservazione prolungata nel tempo aiuta a capire se il rapporto madre/bambino può continuare e con quali supporti, oppure se essa deve essere interrotta per i rischi troppo elevati che comporta per il minore: una decisione, questa, che comunque rimane difficile sia psicologicamente che tecnicamente tanto che spesso si scopre di assegnare al ragionamento scientifico che supporta la scelta di separare o meno madre e bambino, il valore di viatico morale.
Pertanto è fondamentale avvalersi di tutti i supporti disponibili: dalle valutazioni di esperti sulle competenze genitoriali alla supervisione e formazione permanente per l’équipe di lavoro.
Questa funzione è particolarmente delicata nel caso di madri adolescenti in quanto la previsione di come si svilupperà la relazione madre/bambino deve essere sostenuta dalla valutazione relativa alla evoluzione della stessa madre e dall'esito che avrà il suo percorso adolescenziale.
Nelle comunità madre bambino si parla di PEIN ( progetto educativo individualizzato sul nucleo).
L'opportunità di ospitare temporaneamente la madre con il figlio/i in strutture apposite risponde a bisogni differenziati anche se spesso concatenati tra loro: alla mancanza o alla precarietà di risorse materiali, reddito, casa, lavoro, spesso si associano carenza di relazioni sociali, difficoltà dei rapporti intrafamiliari, talvolta separazioni, così che la famiglia rappresenta un luogo difficile per la crescita dei figli; nell’ultimo periodo ai assiste ad un notevole incremento di inserimenti in comunità di situazioni derivanti da fenomeni di violenza, maltrattamento e abusi intrafamiliari così come casi di donne - minorenni vittime di tratta, gestanti o con figli minori.
La maggiore criticità che si riscontra sul territorio nazionale è la mancanza di una normativa uniforme per tipologia di accoglienza ed in alcuni regolamenti la non marcata e chiara definizione della mission di una struttura madre bambino.
In taluni casi la comunità madre bambino finisce per sopperire a bisogni altri da quelli propri: esigenze abitative, sostegno economico a donna disoccupato, supporto a donne vittime di violenza o di tratta… interventi dove la presenza del minore talvolta diviene strumentale alla giustificazione del collocamento in comunità.
Occorre distinguere il tipo di intervento offerto a supporto del nucleo : comunità di pronta accoglienza - comunità di primo livello - comunità di semiautonomia.
Ancora poco “chiaro” è il discorso sulle comunità per madri con problema psichiatrico: quali sono gli ambiti di intervento,quali gli obiettivi ( pericolo di un visione adulto centrica dove il minore può correre il rischio di essere un ostaggio terapeutico ).
Altra criticità è legata al rapporto con l’ente pubblico inviante, spesso condizionato da una visione puramente economica dell’intervento: emerge sempre più il pericolo che venga meno il presupposto per il quale gli enti pubblici e privati dovrebbero lavorare sull’intero nucleo familiare e non solo sulla madre ed il bambino come intervento di emergenza.
Nell’ambito di una progettualità quadro, la realizzazione di percorsi di autonomia lavorativa ed abitativa diviene condizione indispensabile per la dismissione del nucleo una volta completata la valutazione, l’osservazione ed il sostegno psicologico.
Questa criticità di realizzazione soprattutto in alcuni territori dove ,è maggiormente accentuata la carenza di lavoro e di possibilità abitative a costi accessibili, comporta il rischio che le comunità madre bambino diventino “parcheggi” o “ammortizzatori sociali”.
2.4. Comunità di Pronta Accoglienza
Le comunità di Pronta accoglienza sono strutture residenziali che accolgono bambini e/o ragazzi con necessità inderogabile di ospitalità, mantenimento, protezione, in attesa di una collocazione stabile o di un rientro in famiglia, che si caratterizzano generalmente per una funzione di accompagnamento oltre che per i brevi tempi di permanenza degli ospiti.
Le Comunità di Pronta Accoglienza, destinate esclusivamente ad accogliere minori in situazioni di emergenza, sono nate in relazione ad una evoluzione culturale delle linee educative, metodologiche ed organizzative delle comunità di tipo familiare nel momento in cui il presupposto che il minore dovesse essere inserito in modo corretto nel gruppo di coetanei e il suo ingresso deve essere compreso alla luce di un progetto a breve o medio termine, oltre a divenire un’acquisizione teorica si è trasformato in buona prassi.
Questo ha reso di difficile soluzione, per i servizi sociali, la gestione dell'emergenza. Chiusi gli istituti, che si prestavano a operazioni di soccorso immediato e fornivano vitto e alloggio, i servizi dovevano poter disporre di strumenti adeguati per poter, immediatamente, accogliere e dare una prima risposta a questi bambini o ragazzi. Infatti il compito della pronta accoglienza è importante e piuttosto specializzato. Deve essere organizzato con grande flessibilità in modo da saper accogliere in qualunque momento qualsiasi minore gli sia proposto dagli enti affidanti (Tribunale, servizi sociali, forze dell'ordine). Il Centro deve, inoltre, fare una prima diagnosi del caso e fornire informazioni ai servizi per imbastire un progetto educativo.
Gli inserimenti di urgenza sono quelli che generalmente avvengono perché si verifica una situazione imprevista che non presenta margini di intervento se non immediati. In questa casistica possiamo comprendere la rottura improvvisa e violenta dei rapporti con uno o entrambi i genitori, un sospetto di abuso, la morte o la detenzione di un genitore, un ricovero urgente del solo genitore presente perché l’altro è fuori per lavoro o per motivi diversi, la condizione senza tutela di minori stranieri non accompagnati anche inserimenti tramite le forze dell’ordine per collocare minori, o dichiaratisi tali, scoperti in flagranza di reato.
Sono state uno strumento indispensabile per le situazioni di minore straniero non accompagnati; alcune criticità: l’allungamento dei tempi di permanenza, in questi casi la gestione del quotidiano, le non sempre facili prospettive legate al progetto educativo personalizzato, spesso anche con l’aggiunta di difficoltà giuridico-legali.
3. Elementi di vita quotidiana
La quotidianità è il principio cardine delle comunità, una specie di liquido amniotico, nutriente, rassicurante, protettivo, dove giorno dopo giorno s’impara a vivere insieme, a costruire relazioni, a conoscersi, a diventare più forti, a riconoscere i propri problemi, a superarli. La quotidianità, così densa di problemi, ma anche così piena, così ricca di significati da diventare un modello di riferimento teorico in continua evoluzione: gesti e riti, spesso ripetuti, magari senza apparenti scelte pedagogiche, ma che hanno una grande influenza sull’equilibrio fisico e mentale degli individui. La vita quotidiana di ciascuno è in effetti un fatto complesso, collegato ad esperienze di natura materiale e psichica, sociali e mentali, antropologiche quanto storiche. Parlare di “vita quotidiana” significa far riferimento ai momenti che rispondono ai bisogni materiali fondamentali delle persone: dormire, riposare, mangiare, lavarsi, dando origine al paradosso che vede la quotidianità mantenere tutta sua la dimensione di “naturalità” pur essendo progettata ed “intenzionata”.
Gestire la quotidianità, senza perdersi nella routine (gestione del quotidiano e ripetitività della routine sono due dimensioni dell'intervento educativo estremamente contigue: come si può stare all'interno di una ripetitività inevitabile - sveglia/pranzo/cena/dormire, solo per restare sul generale... - senza trasformare i propri gesti in qualcosa di vuoto ed automatico? Innanzitutto prevedendo la possibilità, per gli educatori, di personalizzare il proprio lavoro, per quanto riguarda, ad es., il menù, oppure gli incarichi specifici interni, ad es. chi è addetto a cucire, chi, di preferenza, a fare la spesa, ecc. Poi mantenendo costantemente in una proiezione centrifuga il proprio lavoro, cercando cioè contatti e situazioni esterne che costringono ad aggiustamenti interni ed a modifiche costanti della routine).
3.1. I livelli dell’educare
Il lavoro educativo si intreccia su più livelli, ognuno dei quali riveste un’importanza e una pregnanza che non possono essere sottovalutate.
Un primo, importantissimo livello, è quella parte del lavoro educativo, che presuppone e richiede competenze di lavoro in rete, di valutazione della situazione, di progettazione e programmazione e verifica, relazioni, interventi, documentazione, rapporti con il Tribunale, con i Servizi, con le Famiglie, con gli Altri soggetti (scuole, associazioni di tempo libero, volontariato, servizi educativi territoriali).
Infatti dobbiamo considerare elementi indispensabili per un buon lavoro:
­ La dimensione progettuale, cioè il raccordo, l’interazione e la pari dignità tra le diverse fasi di impegno professionale per il sostegno ad un minore, l’impiego e lo studio di strategie operative sempre più rispondenti alla risposta complessiva al bisogno, il lavoro che si sviluppa a partire da un Progetto Quadro definito, da patti chiari con l’ente committente, con lo stretto raccordo e direi l’unità di intenti tra i diversi soggetti che si occupano a titoli diversi della gestione del “caso” , un rapporto vivo con il territorio, la formazione continua degli educatori meglio se comune ad altre professionalità che intervengono nel percorso, la ricerca e lo studio sono già strumenti indispensabili per un lavoro serio e costruttivo, una cornice entro cui si muovono gli aspetti diretti del lavoro educativo.
­ La dimensione gestionale: questo livello attiene sicuramente ad uno dei maggiori elementi qualitativi del lavoro educativo, quella che possiamo definire la routine del quotidiano che, nella sua semplicità apparente, ma ricca di saperi professionali coniugati alla spontaneità che gli educatori intenzionalmente pongono nell’azione e nella relazione educativa, permette che si esplichino quelle valenze di rassicurazione prima e che permettono al minore, in una fase successiva, di affrontare e tentare di risolvere i propri problemi, in un clima di familiarità.
Il livello personalizzato e quello generale dell’intervento educativo residenziale si interconnettono nella tensione degli obiettivi principali delle comunità:
• offrire un clima di cura e protezione
• offrire il sostentamento materiale
• rinforzare le funzioni intrapsichiche
• migliorare le problematiche comportamentali
• migliorare le competenze sociali
• ottimizzare le relazioni con la famiglia
• favorire il passaggio in una famiglia affidataria e/o adottiva.
La comunità diventa così il luogo della cura dove, per la qualità dell’intervento, diventa essenziale l’insieme delle condizioni strutturali, spaziali, temporali, relazionali e programmatiche della vita residenziale a dimensione familiare, per concorrere a forgiare quello che storicamente veniva definito un “ambiente terapeutico globale”.
Per un minore che ha vissuto una situazione problematica, quanto può essere rassicurante la presenza di qualcuno che lo sveglia, gli prepara la colazione, che lo “coccola”, che si prende cura di lui, che se necessario media gli incontri con i genitori o lo protegge da situazioni di forte esposizione?
Ma c’è ancora il terzo livello da esplorare, quello che arriva “dentro” l’educatore, con cui ogni giorno l’operatore deve confrontarsi, cioè quello di conoscere, lavorare su situazioni di forte sofferenza, di dolore di bambini spesso molto piccoli e penso che, se non adeguatamente supportato, e a volte nonostante questo, possa avere crisi passeggere o durature di rifiuto di una continua esposizione alla sofferenza. Parlo per intenderci del burn-out, di quella sindrome che, con le sue implicazioni psico-fisiche, è la testimonianza che il mestiere dell’educatore si vive sulla propria pelle.
Rispetto a quest’ultimo livello abbiamo già molte volte espresso la nostra posizione con convegni, giornate di studio e approfondimenti dedicati ai temi della supervisione, della formazione continua degli operatori, di strategie organizzative da una parte e personali dell’educatore dall’altra per andare a ridurre il rischio di stress in comunità per minori.
3.2. Le diverse velocità di intervento
Un altro elemento da considerare sono le diverse velocità di intervento che si realizzano per la famiglia e per il minore ospite in comunità, infatti mentre il minore in comunità sperimenta un intervento continuativo e costante, per quello che riguarda la famiglia i tempi e le frequenze dei colloqui o di altre strategie messe in atto possono essere molto diverse e sicuramente hanno una cadenza e un’incidenza assolutamente più diluita di quella che la comunità ha sul minore.
Proprio per colmare questo gap, o non trovarci al compimento della maggiore età senza punti di riferimento che possano permettere al ragazzo di continuare il percorso avviato, si evidenzia la necessità che la sperimentazione rispetto al fatto che una famiglia possa acquisire competenze genitoriali , dismettendo comportamenti problematici sia valutata in tempi che consentano efficace questo tipo di percorso.
3.3. Le comunità e la famiglia di origine
L’intervento sulla famiglia d’origine, spesso sempre più richiesto e demandato agli operatori delle comunità, parte dall’assunto di fondo che spinge a credere e a investire nel sostegno alla genitorialità in famiglie spesso fortemente compromesse e in difficoltà nella cura dei loro figli.
L’atteggiamento di fondo è non giudicante bensì di accoglienza e vede le comunità non in sostituzione delle figure genitoriali ma a sostegno delle stesse in quanto dovere deontologico. Lavorare in una logica di questo tipo può evidenziare diverse possibilità:
­ mantenere connessi gli attori coinvolti e collaborare con loro con conseguente potenziamento del lavoro di rete;
­ la comunità garantisce una presenza oltre l’orario di ufficio che permette una maggior flessibilità nell’intervento, anche nelle situazioni di emergenza;
­ un intervento che si muove tra la comunità e il territorio e il domicilio di tali famiglie permette una nuova e più approfondita conoscenza del nucleo;
­ gli educatori possono mettere in campo loro competenze (osservazione, relazione educativa, empatia, facilitazione, esperienza), anche se questo lavoro significa formarsi ulteriormente e in maniera sempre più professionale;
­ maggior protagonismo dei soggetti coinvolti, ascolto autentico delle esigenze dell’utente-minore;
­ maggior flessibilità dei servizi offerti dalle comunità: investire su progetti di sostegno alla genitorialità è espressione di una progettualità nuova con i servizi sociali e del territorio, che comporta investimenti economici “nuovi”, ma anche l’esplicitazione di mandati e aspettative molto più attente e orientate al raggiungimento degli obiettivi che al rispetto esclusivo delle procedure.

Pur in presenza di rischi e limiti nel rapporto tra la comunità e la famiglia, vi sono possibilità ed occasioni che portano ad esiti positivi non solo nella gestione diretta del caso: potenziamento del lavoro di rete, maggior protagonismo dei soggetti coinvolti, ascolto autentico delle esigenze dell’utente-minore, maggior flessibilità dei servizi offerti dalle comunità.
Si ritiene di dover sottolineare altresì come per investire su progetti di sostegno alla genitorialità sia necessaria una progettualità nuova con i servizi sociali e del territorio, che comporta investimenti economici “nuovi”, ma anche l’esplicitazione di mandati e aspettative molto più attente e orientate al raggiungimento degli obiettivi che al rispetto esclusivo delle procedure.
4. Elementi di professionalità

4.1. Formazione
Quando le comunità sono nate si parlava del diploma di scuola media superiore come base curriculare per accedere al lavoro in comunità, inoltre gli educatori dovevano aver conseguito una formazione specifica ed aver assicurato l'accesso ad ulteriori momenti di formazione. In alcune zone d’Italia hanno funzionato le scuole di formazione professionale per gli educatori, che hanno svolto il difficile compito di formare una professionalità così articolata e composita come quella dell’educatore in comunità per minori e gradualmente la formazione si è spostata quasi totalmente nelle università. Ciò inizia a comportare alcune difficoltà rispetto all’assunzione degli educatori, perché ci troviamo sempre più vicino a professionalità che sono più formate per il “pensare” piuttosto che per l’agire. Come dicevamo precedentemente il mestiere dell’educatore è articolato e complesso, molteplici le operatività che camaleonticamente cambia durante la giornata lavorativa: passa con disinvoltura da cuoco ad autista, a mediatore di conflitti, a mediatore culturale, a documentarista, ad animatore, ad esperto di relazione e di dinamiche grippali, a confidenti, a figura genitoriale, a colui che esprime una valutazione del minore, sia in relazione al suo percorso in comunità, sia al suo futuro. Indubbiamente una figura importante. Ma anche una figura che esprime il suo sapere professionale agendo nella vita di ogni giorno, in quella quotidianità che è fatta di azioni concrete, non delegabili al “turno successivo”, di continue assunzioni di responsabilità rispetto alla conduzione della casa, alla gestione dei pasti, alla pulizia dei locali e della biancheria, alla cura degli abiti e di quante altre cose ancora vanno a comporre quell’importante bagaglio educativo e che, insieme alla parte più tecnica del lavoro educativo, consentiranno al minore l’autonomia futura.
4.2. Supervisione
La supervisione è un elemento molto importante nel lavoro educativo svolto in comunità per minori. La complessità delle relazioni presenti, le difficili storie esistenziali dei minori inseriti, il lavoro a turni che non consente agli educatori scambi e chiarimenti continui, devono essere affrontati in un ambiente dedicato, con la presenza di un professionista che è in grado di mediare o promuovere atteggiamenti costruttivi. Questo per far si che le dinamiche dei gruppi e la relazione di questi con l’utenza sia il più possibile serena e, quindi, più incisiva nella sua efficacia e nel contempo sostenga l’operatore nel suo lavoro evitando possibili stress che potrebbero condurre al burn-out. Il percorso professionale richiede sostegno e accompagnamento, consolidamento dell'identità, sviluppo di competenze rispetto all'operatività, in modo da migliorare la qualità professionale erogata.
5. Elementi strutturali
5.1. I requisiti strutturali
Dopo il DPCM 308 sui Requisiti strutturali minimi per le strutture residenziali e semiresidenziali, le regioni hanno inteso normare definendo le questioni logistiche ed il numero di minori ospitabili in relazione alle diverse tipologie di struttura. L’elemento strutturale, con la divisione in locali adeguati per numero e ampiezza, in relazione al numero degli ospiti, camere singole o massimo doppie, con locali accessori come lavanderia e dispensa, aveva avuto l’intento di garantire spazi adeguati e privacy, così come previsto per servizi destinati ad altre tipologie di utenza (anziani, disabili).
Nel cercare di dare il massimo e avendo come obiettivo l’uniformità dei criteri, quello che ha perso di centralità è l’età degli ospiti, bambini e ragazzi con le loro fragilità, le loro paure, amplificate dagli eventi e dalle situazioni che li hanno portati ad una collocazione extra-familiare ed ad una modificazione importante dei riferimenti abituali. Se in questa situazione pensiamo ad un luogo con grandi spazi, lunghi corridoi, numerose stanze, e ad un bambino che dorme solo in una stanza ancora sconosciuta, o che è arrivato con due fratelli, che ha disturbi del sonno, forse ci rendiamo conto che la logistica dovrebbe essere pensata anche in funzione dell’età: per un adolescente spazi più ampi, privacy sono elementi fondamentali, per un bambino più piccolo invece lo sono vicinanza, visibilità, sentirsi protetto.
Per far sì che anche la chiusura degli istituti non diventi solo un restauro delle facciate, o per evitare abbattimenti dei costi a scapito della dimensione della familiarità, riteniamo sia necessario evitare che coesistano più strutture sullo stesso stabile soprattutto con servizi centralizzati o il ricorso al catering.
Non stiamo proponendo una deregulation, siamo convinti che ci debbano essere limiti e confini, tant’è che l’elaborazione di standard quali-quantitativi per le comunità per minori elaborata dal C.n.c.m. è stata uno strumento ampiamente utilizzato in discussioni di livello nazionale e sono diventati la base di importanti documenti nazionali. Quello che ci preme sottolineare è che, quando si parla di comunità per minori, tutto, compresi gli spazi devono essere pensati in virtù della funzione educatica e dell’indispensabile clima di familiarità.
5.2. Dimensione familiare e normative (Haccp)
Il riferimento è alla normativa Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n. 155, "Attuazione delle direttive 93/43/CEE e 96/3/CE concernenti l'igiene dei prodotti alimentari" e seguenti, che hanno equiparato le comunità per minori ai ristoratori o alla grande distribuzione del cibo.
Sappiamo per esperienza che, nelle comunità per minori, la “cucina” è un luogo privilegiato di relazione, dove la cura e la rassicurazione passano attraverso la regolarità e la qualità dei pasti, dove si apprendono elementi di conoscenza di un’alimentazione corretta, dove passano i fili che andranno ad intrecciare l’autonomia personale, dove sono presenti l’affetto e la relazione con gli adulti, dove possono risolversi dei problemi o delle crisi passeggere, dove si sviluppa il senso di cooperazione e di appartenenza.
Crediamo sia un diritto dei minori ospiti delle comunità avere un’alimentazione equilibrata, che siano utilizzati cibi freschi e sani, che il menù consenta l’apporto delle sostanze utili per la crescita e che ancora i cibi siano conservati correttamente e che vengano usate buone prassi igieniche per la pulizia degli ambienti e delle stoviglie. Ma crediamo anche che, per quanto detto prima, la cucina è un luogo della casa in cui i ragazzi possano accedere, in cui possono sperimentare l’autonomia di imparare a cucinare, dove possono collaborare nel riordino successivo al pasto o nell’approntare la tavola, dove l’educatore non si è trasformato in un’altra figura professionale.
Riteniamo però indispensabile che nella legislazione e nei relativi controlli debba prevalere il concetto della ragionevolezza, in modo che sia possibile raggiungere un punto di equilibrio tra la necessità del controllo e la salvaguardia dei ritmi e del clima familiare, in modo che la legislazione sia di supporto alle strutture e non un ostacolo.
6. Elementi di progettazione
La quotidianità è la radice stessa della progettualità, a partire dall’osservazione dei problemi e delle risorse di ciascun minore, degli educatori, della comunità, del territorio, si struttura una progettazione a diversi livelli che, in coerenza, si sviluppa e si articola nei diversi progetti.
6.1. Progetto Quadro
L'elaborazione del Progetto Quadro è il momento fondamentale di ogni intervento sul minore soprattutto se residente in comunità ed estremamente interessanti sono le contaminazioni di questo con il progetto educativo individualizzato elaborato dalla comunità.
Le linee guida "Qualità dei servizi residenziali socio-educativi per minori" del Ministro per la solidarietà sociale d'intesa con la Conferenza Unificata (bozza del marzo 2000) hanno ipotizzato che il Servizio Inviante o di competenza territoriale dovesse curare la redazione di un Progetto Globale per il minore inserito in comunità, comprendente:
a) l’obiettivo conclusivo dell’intervento, con le relative fasi e tempi:
- rientro nella propria famiglia di origine;
- affidamento familiare;
- adozione;
- raggiungimento dell’autonomia, con la maggiore età, nel caso nessuna delle tre ipotesi precedenti sia percorribile
b) gli obiettivi e le responsabilità del lavoro con la famiglia di origine e/o con la famiglia affidataria e/o con la famiglia adottiva e/o per soluzioni di autonomia.
c) il lavoro di rete con altre agenzie formali ed informali.
d) modalità e tempi di verifica.
L’importanza del Progetto Quadro, però, non risiede solo nella sua possibilità di percorso definito per il minore, ma ha una ulteriore ed imprescindibile valenza: il minore che proviene da una famiglia senza o con poche capacità genitoriali, maltrattante e/o abusante e, proprio per questo, non ha su di sé quell’attività progettuale che un genitore, soprattutto la madre, compie per il bambino e che viene chiamata reverie in psicologia. Potremo semplificare questa azione dicendo che il significato più importante è quello di pensare il bambino grande, adulto costruendo così per lui un “ponte” per il futuro. Quindi il Progetto Quadro, che è un modo di immaginare il minore in un futuro, potrebbe assumere un'importante funzione sostitutiva di questo processo indispensabile allo sviluppo del bambino.
Il Progetto Quadro deve essere approntato a cura dei servizi territoriali che hanno in carico il minore e dal responsabile della comunità, il minore il diritto di conoscere il motivo del suo inserimento in comunità, lo scopo ed i tempi previsti. Queste comunicazioni devono tenere presente l’età e le capacità del minore. Senza questo tipo di progettualità il rischio è che i tempi di permanenza nelle strutture residenziali si dilatino, che gli obiettivi dell’inserimento diventano fluidi o che la comunità rischi di diventare l’unica realtà che prende in carico il minore.
6.2. Progetto Generale della Comunità
Il Progetto Generale della Comunità ne definisce gli obiettivi e i riferimenti educativi, la metodologia usata, il tipo di prestazioni offerte, l'organigramma, il regolamento interno. Viene periodicamente aggiornato (ogni tre anni circa) per rispondere in modo sempre più adeguato alle esigenze che si modificano e diventano più articolate e complesse e al mutare delle esigenze delle comunità locali, dei dettati legislativi promulgati.
L'accoglienza di bambini e ragazzi in strutture residenziali è finalizzata a garantire un progetto individuale e sociale e le comunità per i minori sono caratterizzate da una forte intenzionalità educativa e sono attente ad evitare ogni forma di istituzionalizzazione, affinché la comunità non sia un luogo che richiede di adempiere in modo rigido ad un programma, caratteristica gli istituti. Il progetto del servizio deve quindi distinguere la comunità come luogo che si propone di governare l’incertezza e non di prefigurare risposte chiare e nette a partire da un modello di riferimento a cui attenersi rigidamente.
6.3. Progetto Educativo Individualizzato (P.E.I.)
Il Progetto Educativo Individualizzato (P.E.I.) è lo strumento declinato dal Progetto Quadro per il minore redatto dal Servizio Inviante in modo coerente con il Progetto Generale della Comunità che consente, attraverso un percorso periodicamente verificato, di modificare le situazioni di disagio del minore, di mantenere vivi i legami con la famiglia e con l'ambiente di appartenenza, e di favorire la formazione della personalità del minore.
Nella formulazione di questi progetti si tiene conto delle esigenze, delle capacità e delle aspirazioni personali del minore e comprende: osservazione del minore, obiettivi educativi, strumenti e metodi di intervento, tempi di realizzazione, modalità di verifica, procedure per la valutazione e le modifiche in itinere, promovendo nuove fasi di progettualità secondo gli obiettivi raggiunti e l’evoluzione della situazione del contesto familiare di appartenenza.
Per i minori, infatti, il percorso principale e gli obiettivi finali, si intrecciano strettamente con il percorso della famiglia, che se in grado di promuovere la propria emancipazione da uno stato di bisogno e/o di conflittualità o di acquisire con la guida di persone competenti quelle capacità genitoriali risultate carenti, faciliterà anche il processo di crescita del minore e la rielaborazione e superamento dei momenti spesso drammatici vissuti. All’interno delle comunità il minore è coinvolto nell’impostazione dei progetti a lui riferiti al massimo consentito dalle sue capacità.
La durata della permanenza del minore è finalizzata all'inserimento in un contesto familiare (rientro nella propria famiglia di origine o affidamento familiare o adozione) e/o al raggiungimento di un'autonomia di vita. I tempi di permanenza dovrebbero essere definiti nella loro brevità o lunghezza tenendo presente i bisogni del/la minore e le concrete opportunità presenti nel contesto sociale e familiare di riferimento.
6.4. L’equipe educativa
Il gruppo educatori/l’equipe è formato da persone diverse, con storie personali e con professionalità specifiche, che si trovano a gestire insieme obiettivi e strumenti di lavoro, spesso alternandosi e non lavorando in compresenza, condividendo uno spazio intimo come quello della comunità. Il gruppo è un organismo vivo, dove ogni ingresso, ogni uscita nel gruppo degli educatori è percepito ed amplificato dai minori della comunità e dove le relazioni degli educatori in una comunità diventano legami forti, creano un forte senso di appartenenza.
6.5. Il gruppo dei pari
Anche il gruppo dei “pari”, ovvero il gruppo dei ragazzi e/o ragazze ospiti delle Comunità, è una risorsa per gli educatori. Se gli educatori hanno la piena consapevolezza di ciò è necessario fare in modo che il “gruppo” possa produrre il massimo dei suoi effetti positivi e diventa necessario saperlo trasmettere al gruppo stesso, fare cioè quello che in un gruppo di lavoro viene chiamato “definire l’obiettivo”. Il “gruppo dei pari” è il luogo dove si intersecano e si articolano processi e valenze individuali con processi e valenze sociali, in cui l’individuale e il sociale trovano il loro momento di integrazione:
livello individuale: nel gruppo l’individuo ricerca il sostegno e il supporto degli altri, e nello stesso tempo una difesa dai sentimenti di ansia e paura insiti nei contatti con chi è estraneo e diverso, il sentirsi “gruppo” fornisce ai singoli un rassicurante senso di appartenenza, agisce da difesa e protezione, esorcizza le paure del diverso
livello sociale: l’accento si sposta sulle regole e sulle norme che il gruppo come pluralità di individui si è dato, nonché sugli scopi comuni, le mete e i compiti che si propone di raggiungere, può porsi in rapporto di confronto/scontro con altri gruppi.
Quindi nel gruppo dei pari si sperimentano relazioni e si definiscono regole e comportamenti, sia all’interno del gruppo che all’esterno, si può vedere come un vero e proprio “laboratorio”. Se lo strumento più importante del lavoro educativo sul singolo è il “Progetto Educativo Individuale” (P.E.I.), un “Progetto Educativo di Gruppo” (P.E.G), in cui l’equipe osserva, pianifica e controlla la crescita ed i cambiamenti del gruppo, propone attività e si da dei tempi e delle modalità di verifica, potrebbe essere un valido strumento di pianificazione nella comunità che, oltre a definire i percorsi dei singoli, si porrebbe l’obiettivo di una crescita d'insieme dei minori in carico.
6.6. Lavoro di rete e 328
Ogni servizio non può vivere a se stante, la rete dei servizi e degli interventi, ancora prima della definizione legislativa della 328, è stata uno stile scelto da moltissime realtà sia istituzionali che del privato sociale. Perché la rete sia effettiva e concludente sono necessari alcuni presupposti, primi fra tutti la definizione delle singole identità (sia di area professionale che di servizio) e l’assunzione di responsabilità di ruolo e personale. Un’area di rischio individuata nella rete è la gestione delle aree confinanti o poco definite che possono generare confusioni, rigidità, confluenze. Inoltre un altro aspetto da non sottovalutare, perché si propone purtroppo molto spesso, è quella di una “concertazione di facciata”, che porta a conoscenza decisioni già prese e non consente invece quel proficuo lavoro tra tutte le componenti individuate.
7. Elementi economici
7.1. Costi, rette, gare d’appalto
In un momento storico-politico-culturale caratterizzato da un’importante crisi economica e da un forte restringimento della spesa sociale, il capitolo relativo agli aspetti economici acquista particolare spessore. Il problema riguarda molte comunità, anzi probabilmente le tocca trasversalmente tutte, poiché le comunità, o in rapporto convenzionale con un ente committente o con il pagamento rette, dipendono da fondi pubblici.
La situazione delle rette a livello nazionale è molto differenziata, non sono uniformi e presentano notevoli differenze anche all’interno dello stesso territorio e difficilmente sono rapportate alla qualità di erogazione del servizio, ma dipendono da tanti altri fattori.
Un ulteriore preoccupazione è quella relativa al fatto che, poiché il pagamento delle rette è ormai appannaggio solo dei comuni, si possano creare delle situazioni in cui è necessario inserire il minore in comunità come risposta alle sue esigenze, ma il singolo comune non ha i soldi per pagare o può ritenere questa una spesa che può essere evitata dando priorità ad altri interventi. La possibilità o la volontà di pagare una retta, da parte di un ente locale, non devono diventare un fattore discriminatorio per minori che risiedono in territori diversi.
Inoltre le gare di appalto, per le comunità gestite a convenzione, possono interrompere in modo brusco una continuità educativa, produrre cambiamenti anche sostanziali nella gestione delle comunità e nell’impostazione tecnico-metodologica e alimentare il senso di precarietà negli educatori. Per queste motivazioni nei capitolati di gara si dovrebbe tenere conto della continuità educativa, dei legami con il territorio, della qualità d’erogazione del servizio e dare un valore minore al prezzo che dovrebbe essere anche rapportato alle offerte presentate nei progetti. I contratti dovrebbero avere una durata pluriennale, per consentire quella tranquillità che, oltre per ente gestore, è fondamentale per gli educatori; la precarietà del lavoro è sicuramente una fonte di stress e può incidere, nonostante tutta la buona volontà, sul rendimento professionale, così come incide sulla scelta di cambiare lavoro, favorendo il turn-over.
7.2. Fondo di solidarietà
Riteniamo indispensabile proporre che venga istituto nelle Zone, negli Ambiti o nelle altre possibile forme di aggregazione di cui i comuni e le regioni hanno inteso dotarsi in adempimento alla 328, un fondo di solidarietà che sostenga soprattutto i piccoli comuni che si trovano ad affrontare la spesa delle rette senza che il bilancio glielo consenta. Questo potrebbe essere possibile se più comuni sostengono la spesa del rapporto convenzionale con comunità che insistono in un determinato territorio
30-03-2012